Si dice. A proposito di anolini.
Si dice che ogni famiglia possegga la propria ricetta, fatta più o meno di diversi ingredienti, e che non manca mai occasione per essere giudicata, valutata, difesa o condannata.
Si dice che quello della mamma sia (o era) il più buono ed equilibrato, non ci saranno mai confronti a discapito di quello. Pare sia perfettamente inutile fare gare, tanto ogni giudicante avrebbe parametri di confronto ben precisi, quasi fossero impressi nel Dna di ogni parmigiano.
Si dice che ognuno conservi nel proprio cassetto della cucina il proprio stampo: con molla o senza molla, con festoni (discutibile) e con diametri diversi (discutibile pure questo).
Il mio stampo per anolini è questo: vecchio di forse cento anni, ma efficientissimo, dal taglio netto, facile da impugnare. Ne ho provati tanti in questi trent’anni di lavoro, ma nessuno mi soddisfa quanto lui. Che forse la mia mano si sia adattata fin da bambina a questa impugnatura?
Quello che sto per dire, però, non l’ho mai sentito: che ogni qual volta afferro questo semplice attrezzino, una ventata di nostalgia intensa, inarrestabile, angosciante, un susseguirsi di ricordi fatti di particolari di mani, volti, risate, discorsi, complicità, si aprono nella mia mente come un sipario.
La cucina dei miei cari, l’idea di iniziare ad organizzare l’opera di produzione (quasi fosse per tutta la città di Parma), l’acquisto degli ingredienti solo dai negozianti fidati, la preparazione dello stracotto, il piatto crepato sulla pentola di quest’ultimo, il profumo di casa, il divieto di toccare quel “ tesoretto” sul fornello, il rito dell’assaggio della farcia da ogni componente della famiglia.
La nonna metteva, oltre al sugo della carne stracotta, anche il “salamino”. Un momento: la nonna faceva cuocere a parte il salamino, e solo una volta cotto e assaggiato, se meritava lo si metteva per arricchire di gusto, ma qualora la sapidità fosse dubbia lo si mangiava a pasto per non buttarlo… E poi la pasta fatta a mano, il tirasfoglia con la manovella (di mia proprietà solo alla fine, quando la pasta era ormai rinsecchita, ma per le bambole andava bene), le strisce, le palline del ripieno e l’attrezzino.
Il mio compito, non di poco conto, era la disposizione finale degli anolini sul tagliere.
Mettere in fila quei morbidi “bottoni” era divertente e facile, ma vietato non seguire il rigore della fila, in entrambi i sensi. Erano quelle righe regolari che permettevano la conta, il passaggio finale che gratificava il fare di noi operanti (io, mamma, nonna).
Detto ciò, in tutti questi passaggi un ingrediente non mancava mai: la passione e l’amore, quasi come se nel piatto, in caso di difetto, lo si sarebbe sentito.
E questo io respiravo, mentre trascorrevo queste giornate con la responsabilità di aiutante domestica. Perciò quel che non si dice è che nel brodo… non è solo l’anolino che viene a galla…